Il bambino guarda
l’alieno con stessa curiosità di un delfino che osservi una candela o una
farfalla. Il sonno è passato completamente. Non è impaurito proprio per nulla,
anche se ha letto tante di quelle storie di alieni armati di raggi mortali che
cercano di conquistare il nostro pianeta incenerendo tutto quello che capita loro
a tiro. Questo alieno non sembra in grado di invadere neppure un asilo nido, i
lattanti lo metterebbero in fuga a colpi di ciuccio, e se distrugge qualcosa
probabilmente sarà un oggetto che cade a terra mentre lo maneggia con le sue
lunghissime dita affusolate. Come il bicchiere che ha appena afferrato.
-
Forse
è meglio se lasci stare quel bicchiere – dice il bambino
-
Quale
bicchiere? – domanda l’alieno, e proprio mentre cerca di sollevarlo per
portarselo verso la testa quello badabang! cade in terra frantumandosi in mille
pezzi con un tonfo sordo – Scusa, credo di aver rovinato il tuo cannocchiale…
-
Non è
un cannocchiale, era un bicchiere.
-
A
cosa serve un bicchiere? Per guardare le cose lontane facendole sembrare vicine?
-
Quello
è un cannocchiale.
-
Allora
avevo ragione, è un cannocchiale.
-
No
quello non era un cannocchiale. Non ti fa vedere vicine le cose lontane.
-
Hai
mai provato?
-
No,
certo che no.
-
E
allora come fai a sapere che non è un cannocchiale?
-
Perché…
perché… Mi sento un po’ confuso. Ma quello è un bicchiere. Serve per bere.
Acqua, succo di frutta, latte. Nel mio a volte sciolgono anche le medicine.
-
Cosa
sono le medicine? – chiede ancora l’alieno, che non sembra avere molta pratica
con le faccende di questa terra, ma molta buona volontà di capirne qualcosa.
-
Non
so di preciso. So soltanto che non posso vivere senza. E che a volte certe
medicine servono per evitare che le altre medicine facciano male. E poi devi
prendere altre medicine per quelle che prendi contro le altre. E alla fine
prendi medicine per curare le medicine.
-
Non
ho capito.
-
Neppure
io. Ma vorrei anch’io chiederti qualcosa. Perché hai scelto di scendere proprio
su questo pianeta?
-
Veramente
fluttuavo nello spazio quando ho visto dallo specchietto retrovisore che il
vostro pianeta mi stava piombando addosso a
velocitò stratosferica.[1]
Non avete neppure suonato il clacson. O per essere precisi in quel preciso
istante ne stavano suonando circa 11 milioni ottocentisessantasettemilaquattrocentoundici.
Ma nessuno era rivolto a me. Per vostra fortuna sono un guidatore prudente, ho
frenato atterrando dolcemente qua sopra. Stavo proprio cercando un pianeta dove
riposarmi un poco. Sai dov’è una spiaggia?
-
Vuoi
andare al mare? Ora capisco perché indossi il costume. E l’asciugamano. Sei venuto
qua in vacanza, allora.
-
E’
questa la mia missione. Sto girando questo brandello della vostra galassia a
caccia di sabbia e onde d’acqua salata. Mi sono utili perché sono uno
scienziato. Devo ricercare la spiegazione delle relazioni tra le particelle elementari
che danno forma all’universo. Si sa appunto che somiglia a un gigantesco mollusco
ripiegato nella sua conchiglia. E lo spazio e il tempo sono il prodotto della
schiuma ondeggiante di microscopiche unità elementari. E dove si trovano i
molluschi? Dov’è che i cavalloni si rovesciano in schiuma? Al mare. Allora se
vuoi capire l’universo è necessario andare sulla spiaggia. O magari su uno
scoglio. Certo, mi piace anche costruire castelli di sabbia. E le piste per le
biglie. E tuffarmi e nuotare inventandomi uno stile a seconda del mio
sentimento: posso nuotare a suino disperato, a pendolo agitato, a pollo
disossato, a fagiolo, a piovra anemica, a uovo. Pensa che nel mio pianeta ci
sono milioni di mari, ma sono piccolissimi, somigliano a tante bacinelle per i
piedi. In compenso sono profondissimi, ma minuscoli che se ti immergi rischi di
restare incastrato. Una volta non ho resistito, mi sono tuffato di testa… e non
c’era più modo di girarmi per uscire. Per fortuna mi hanno afferrato e tirato
fuori per i piedi. Così ho imparato una lezione importantissima.
Segue un
lungo silenzio, mentre l’alieno osserva interessato il monitor spento della
televisione e alla fine soffia via la polvere. Poi conta le sbarre di metallo in
fondo del letto. Poi s’incanta davanti alla sua immagine riflessa dal vetro scuro
della finestra. Poi cerca di afferrare con le sue lunghissime dita il
pulviscolo che ondeggia nell’aria illuminato dalla lampada accesa. Poi… poi il
bambino che non ha mai smesso seguirlo con lo sguardo non resiste più e
domanda:
-
Quale
lezione?
-
Lezione?
Ah già. L’ho dimenticata tanto tempo fa. Ricordo che c’era una lezione, però.
[1] Per amor di precisione a 29,839 chilometri
al secondo. Per fortuna in quel momento l’autovelox spaziale non era in funzione.
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